Pinocchio 4

Pinocchio

I Raccontastorie – Fascicolo 17

 

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      03 - Pinocchio 7^parte
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Mentre Pinocchio nuotava alla ventura, vide su uno scoglio in mezzo al mare una bella caprettina che belava amorosamente e gli faceva cenno di avvicinarsi. Il suo pelo era turchino come i capelli della fata, Il cuore di Pinocchio accelerò i battiti ed egli raddoppiò il vigore delle bracciate. Era già a metà strada, quand’ecco venirgli incontro un’orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata come una voragine e tre filari di zanne da far paura anche a vederle dipinte. Era il gigantesco pescecane, già ricordato in questa storia. Pinocchio terrorizzato cercò di scansarlo, di cambiare strada, ma quell’immensa bocca spalancata gli veniva incontro con la velocità di una saetta. «Affrettati, Pinocchio, per carità!» belava la bella caprettina. E Pinocchio nuotava disperatamente più forte, sempre più forte. «Corri, Pinocchio! Il mostro si avvicina! Attento!… Ti raggiunge!» Ma ormai era troppo tardi! Il mostro s’era bevuto il povero burattino come un uovo di gallina. Quando Pinocchio si riebbe dallo sbigottimento,

non sapeva raccapezzarsi in che mondo fosse. Intorno c’era un gran buio, tanto che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro. Sentì sul viso grandi buffate di vento: il pescecane soffriva d’asma e, quando respirava, pareva proprio che tirasse la tramontana. «Aiuto! Aiuto! Salvatemi vi prego!» «Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?» disse nel buio una vociaccia fessa di chitarra scordata. «Chi è che parla così?» chiese Pinocchio spaventato. «Sono un tonno inghiottito dal pescecane insieme a te. E tu che pesce sei?» «Non ho nulla a che vedere con i pesci. Io sono un burattino.» «Se non sei un pesce perché ti sei fatto inghiottire?» «Ma è lui che m’ha inghiottito» «Be’, rassegniamoci a esser digeriti.» «Io non voglio esser digerito!» «Neppure io lo vorrei, ma sono abbastanza filosofo e mi consolo, pensando che per un tonno c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio.» «Sciocchezze, io voglio andarmene via.» «La mia è un’opinione e le opinioni, come dicono i tonni politici, vanno rispettate. Se vuoi andare, accomodati: sappi però che il pescecane è più lungo di un chilometro, senza contare la coda.» A questo punto parve a Pinocchio di vedere lontano un chiarore. «Che cosa sarà quel lumicino laggiù? Che ci sia qualcuno che possa aiutarmi a fuggire?» «Te l’auguro di cuore.» «Addio, tonno.»
«Addio, burattino, e buona fortuna.» Pinocchio si mosse brancolando in mezzo a quel buio fitto, camminando a tentoni nel corpo del pescecane, verso quel piccolo chiarore che baluginava lontano. Cammina, cammina, alla fine arrivò. E che cosa trovò? Con sua gran sorpresa trovò una tavola apparecchiata, con una candela accesa infilata in una bottiglia e, seduto a tavola, un vecchiettino tutto bianco come se fosse di neve o di panna montata. A quella vista Pinocchio non sapeva se ridere o piangere: voleva dire un monte di cose e invece balbettò parole tronche e sconclusionate.

Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia. «Oh, babbino mio! Finalmente ti ho ritrovato!» «Dunque gli occhi mi dicono il vero? Sei proprio il mio caro Pinocchio?» «Sì, sì, sono proprio io. E tu m’hai perdonato, non è vero? Come sei buono… E pensare che io invece… Oh, ma sapessi quante disgrazie mi son piovute sul capo…» E Pinocchio raccontò la storia che sappiamo: ossia tutto quello che gli era accaduto. Alla fine il burattino chiese: «Ma tu come hai fatto a campare? Dove hai trovato la candela e i fiammiferi?»
«Il pescecane ha un appetito eccellente, e un giorno inghiottì persino un bastimento.» «Coome? Tutto in un boccone?» «Tutto, risputò solo l’albero maestro che gli era rimasto tra i denti come una lisca. Per mia fortuna il bastimento era carico di provviste; ma adesso, dopo due anni che son qui, sono agli sgoccioli…» «Allora, babbino mio, bisogna pensar subito a fuggire.» «Tu dici bene, ma io non so nuotare.» «E che importa? Ci penserò io. Andiamo, presto.» E così attraversarono tutto il corpo del pescecane: arrivati alla gran gola del mostro si fermarono per studiare la fuga. Per via che il pescecane era molto vecchio e soffriva d’asma, dormiva con la bocca aperta e Pinocchio ne approfittò.

«È il momento buono!» sussurrò a Geppetto; ma prima che riuscissero a tuffarsi in mare, il pescecane starnutì e lo scossone li ricacciò nel fondo. «Dobbiamo ritentare, babbo. Vieni con me,» Risalirono su per la gola del mostro, scavalcarono i denti, e… «Montami a cavalluccio sulle spalle, babbo, al resto penso io.» Pinocchio si gettò sicuro nell’acqua, mentre il pescecane seguitava a dormire così profondamente, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata. Pinocchio nuotava di buona lena ma si accorse che il povero Geppetto diventava sempre più inquieto. «Ma dov’è questa spiaggia benedetta?» domandò il babbo. «Non vedo altro che cielo e mare.» «Ci arriveremo, ci arriveremo» rispose il burattino fingendo un buon umore che non aveva. Le forze ormai gli scemavano, il suo respiro diventava affannoso, e infine non ne poté più. «Aiuto, babbo, non ce la faccio più… muoio!» «Chi è che muore?» rispose una nota vociaccia.
«Sono io e il mio povero babbo.» «Ma tu sei Pinocchio!» «E tu sei il tonno! Come hai fatto a scappare?» «Ho seguito il tuo esempio… Ma ora, su, montatemi in groppa. Vi condurrò a riva.» Giunti alla riva, ringraziarono il tonno con un bel bacione e stanchi morti si avviarono lungo la strada in cerca d’un posto per riposarsi.
Non avevano fatto cento passi che incontrarono due brutti ceffi che chiedevano l’elemosina. Erano il Gatto e la Volpe, irriconoscibili: invecchiati, sporchi, malconci; il Gatto cieco davvero, la volpe senza coda. «O Pinocchio, fai la carità a due poveri infermi» gli gridò la Volpe. «Inferrnii!» ripeté il Gatto. «Addio, mascherine! Non m’ingannate più!»

«Credilo, Pinocchio, oggi siamo disgraziati davvero!» «Davver000!» «Addio mascherine! I quattrini rubati non danno mai frutto!» E Pinocchio e Geppetto seguitarono tranquillamente per la loro strada. Arrivati in fondo a un viottolo, videro una bella capanna e bussarono alla porta. «Chi è?» chiese una vocina. «Siamo babbo e figliolo senza pane, né tetto.» «Girate la chiave, e la porta s’aprirà.» Entrati dentro non videro nessuno. «O il padrone della capanna dov’è?» «Eccomi quassù!» Alzando lo sguardo, videro sopra una trave il Grillo parlante. «Oh, il mio caro grillino!» fece Pinocchio «Ora mi chiami il tuo caro grillino, ma… e quando mi tirasti un martello di legno?» «Hai ragione, scacciami pure; ma abbi pietà del mio povero babbo.» «Avrò pietà per tutti e due, ma ricordati: bisogna essere cortesi con tutti, per essere ricambiati di pari cortesia.» Pinocchio accettò di buon grado la lezione e chiese al Grillo dove poter trovare un bicchiere di latte per il suo babbo.
Il Grillo gli indicò un certo Giangio, che teneva le mucche. «Quanto ne vuoi di latte?» gli chiese Giangio. «Un bicchiere pieno.» «Un bicchiere costa un soldo.» «Io non ho nemmeno un centesimo.» «Male, allora io non ho nemmeno un dito di latte. A meno che… non ti adatti a girare il bindolo»; (che è poi quell’ordigno di legno che serve a tirar su l’acqua dalla cisterna per innaffiare gli ortaggi).
«Sta bene», si decise PinoCCIiio. «Finora questa faticaccia la faceva il mio ciuchino, ma ormai quel povero animale è proprio in fin di vita.» Pinocchio volle vederlo: appena entrato nella stalla, chinandosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino: «Chi sei?» «Sono E il povero ciuchino chiuse gli occhi.

«Oh, povero Lucignolo.» Pinocchio si asciugò una lacrima. «Era un mio amico… un mio compagno di scuola.» «Come? Avevi dei bei somari per compagni di scuola!» sbottò Giangio dando in una gran risata. Da quel giorno in poi, il burattino continuò a levarsi ogni mattina prima dell’alba, per andare a girare il bindolo e guadagnare così il bicchiere di latte per il babbo. E non basta. A tempo perso imparò a fare canestri e panieri di giunco; insomma lavorò moltissimo, amministrandosi con giudizio, tanto che riuscì persino a risparmiare quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo. Mentre si recava al mercato, vide una lumaca sbucare da una siepe: era la cameriera della fata. «Pinocchio mio» gli disse «la povera fata è ammalata e si trova senza un soldo all’ospedale.» «Davvero? Oh, povera Latina! E io non ho che quaranta soldi: mi servivano per un vestito nuovo, ma prendili, portaglieli subito.» «E il tuo vestito nuovo?» «Cosa vuoi che m’importi? È la sua salute che conta: fa in modo che venga curata bene. Torna fra due giorni a riferirmi. Io intanto cercherò di lavorare di più.» La lumaca, contro il suo costume, corse via veloce come una lucertola. Quella sera Pinocchio lavorò fin oltre la mezzanotte, e invece di fare otto canestri di giunco, ne fece sedici.
Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse: «Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le tue monellerie. I ragazzi che assistono i loro cari meritano lode e rispetto, anche se non sono modelli d’ubbidienza e di buona condotta.» A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò con tanto d’occhi spalancati.

Ora immaginatevi la sua meraviglia quando, svegliandosi, si accorse che non era più un burattino di legno, ma era un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata intorno e, invece delle solite pareti della capanna, vide una bella camera ammobiliata e agghindata con semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò dei bei vestiti nuovi e un paio di stivaletti di pelle. «Babbo! Babbo!» gridò a un tratto; ed entrato nella stanza accanto, trovò Geppetto sano e arzillo come un tempo. «Babbino, cosa è successo?» gli domandò saltandogli al collo e baciandolo. «Cosa sono tutte queste meraviglie?»

«Quest’improvviso cambiamento è tutto merito tuo» disse Geppetto. «Perché merito mio?» «Perché quando i ragazzi da cattivi diventano buoni, possono far questo ed altro; e poi si vede che tu non eri cattivo del tutto.» «E il Pinocchio di legno dove sarà?» «Eccolo là», rispose Geppetto; e gli mostrò un burattino appoggiato a una seggiola, col capo reclinato, le braccia ciondoloni e le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se aveva potuto reggersi ritto. Pinocchio si volse pensieroso a guardarlo. E dopo che l’ebbe guardato per un poco, disse tra sé: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come son contento d’essere diventato un ragazzo!»